Pier Paolo Pasolini durante le riprese del film "Il Decameron" 22 aprile 1971 © Vittoriano Rastelli/Corbis/Getty/Riproduzione riservata
Alla madre, fino a martedì scorso, nessuno aveva detto come e morto Pier Paolo Pasolini: sapeva soltanto che il figlio aveva perso la vita in un incidente d'auto. Nel grande salone di via Eufrate 9, tappezzato di libri edi quadri, alcuni dei quali dipinti dallo stesso scrittore, la signora Susanna Colussi 80 anni, si aggira sorretta da un'amica con un lento gemito ininterrotto che le esce dalle labbra ormai da giorni e giorni. Accanto, pochissimi amici, quella ristretta cerchia di intimi con i quali, in vita, Pasolini si era costruito una sua famiglia, al riparo da ogni attacco o accusa: la cugina Graziella, i due fratelli Citti, il cugino Nico Naldini (le madri sono sorelle), regista del film Fascista, Laura Betti, forse l' unica donna in un certo senso amata, e Ninetto Davoli, l'attore che era diventato per lo scomparso come un figlio.
«Li ha tutti vicini quelli che gli volevano veramente bene», dice Cesare De Santis, custode della palazzina dell'Eur dove Pasolini si era comperato un appartamento (tre camere da letto, doppi servizi e un salone) con i guadagni del film Il Vangelo secando Matteo. «Sono i compagni di sempre, coloro che potevano salire da lui senza farsi annunciare.» Ricorda Nico Naldini: «Aveva un concetto severo dell'amicizia; stargli accanto era un impegno continuo. lo lo conoscevo da sempre, gli ero parente, ma ancora adesso, mentre ne parlo, provo una strana soggezione, quasi il timore di reccargli fastidio con una frase inutile, una osservazione di troppo» . Con uno stanco sorriso, Sergio Citti, regista di Storie scelerate, aiuto di Pasolini, ispiratore di molti suoi scritti, ripete : «Gli dicevo spesso: "A Pa', sei n poco fesso'", perché era troppo buono con tutti». Quando domenica 2 novembre Maria Teresa Lollobrigida ha visto per prima il suo corpo a pochi passi dal mare, tra Ostia e Fiumicino, lo aveva indicato al marito scambiandolo per un mucchio di immondizie. Una scena e un dialogo che sembra vano prefabbricati, come se uscissero di peso da un finale scritto o filmato da Pasolini stesso. Poi sono venute le commemorazioni ufficiali , l'omaggio degli avversari, la spietata ricostruzione della sua fine. Si sono analizzate le opere, spiegate le ultime polemiche che lo avevano contrapposto ad altri intellettuali della sua generazione, tracciato il profilo del suo pensiero. Ma chi era, in realta, Pasolini? Quale uomo si celava dietro lo scrittore, il poeta, il cineasta discusso?
«La sua vera vocazione era quella di insegnare, di comunicare agli altri, soprattuto ai giovani, quanto era riuscito ad apprendere », racconta Naldini.
«Così 'ho visto la prima volta, a tredici anni, in una frazione di Casarsa, in Friuli, quando faceva scuola a me e ad altri figli di contadini. Ci abituava a leggere Montale e Saba, ci interrogava su quanto avevamo letto, correggeva le nostre idee. Se oggi posso dire d'avere acquistato qualche conoscenza, lo devo a lui, al suo metodo per affrontare le verita dell'uomo.» Così era rimasto fin da quando, a Roma, negli anni cinquanta, abitava in borgata vicino al carcere di Rebibbia e insegnava in una scuola privata di Ciampino.
«Dicono che io sia stato il suo ispiratore. In realta, eravamo
come una cosa sola», continua Sergio Citti. «Quello che rammento del primo incontro, e la maniera con cui riusciva a cavare dai miei discorsi un filologico, a farmi riflettere, a far scoprire in me stesso, un esempio dopo l’altro ció che già conoscevo e non sapevo ancora di pensare.» Poche ore prima del la morte, Pier Paolo Pasolini era stato a cena con Ninetto Davoli, i figli e la moglie di lui.
«Abbiamo parlato e riso, rammentando la fatica sua, per farmi capire le cose, la meraviglia mia d'essere ascoltato da uno tanto intelligente. Ci conoscevamo da sempre, ma non era cambiato nulla. Era gentile come la prima volta, mi ascoltava attento, mi suggeriva la parola giusta.»
E difficile, ora, dai ricordi dei pochi fedelissimi ricostruire il dramma umano di Pasolini, la sua rivolta contro ogni tipo di violenza, il suo senso di isolamento, la meraviglia per l'ostracismo che l'aveva relegato in una immagine di scrittore maledetto. Vi si era adeguato, con una vita di relazioni ridotte all´osso: pochi intelleltuali scelti con cura, uno svago legato a veementi partiti di calcio sui campetti di borgata, le parche cene in trattoria , le solitarie e scursioni notturne alla ricerca di nuove esperienze di fugaci affetti. «Quando eravamo giovani, dopo aver passato la giornata a scrivere e riscrivere, a discutere, ci lasciavamo la sera ciascuno per la sua strada: io andavo a ragazzine, lui con gli amichetti. Gli dicevo spesso : "A Pa', perché non provi con qualche donna?"», racconta Citti. «Una sera me lo vidi capitare davanti teso e deluso: era stato con la Franca, una che conoscevarno bene tutti . Ne cavò poi la su a poesia più bella intitolata “Per un figlio non nato”».
Il benessere, raggiunto attraverso i ricavi dei suoi films più famosi, aveva cambiato ben poche cose. «Oltre alla casa quall'Eur, se ne è costruita una al mare assieme a Moravia e ha riadattato un vecchio castello vicino a Viterbo», dice Franco Citti, l'attore reso celebre con il film Accattone. «Ma ha fatto tutto per noi, perché voleva, da vecchio, averci attorno, come una grande famiglia, lontano da gli intrusi, da chi gli voleva male.» Con la stessa attenzione aveva difeso il suo affetto più grande, quello per la madre.
«Quando lui doveva anclare fuori Roma per lavoro, veniva da me, si sedeva qualche istante in guardiola, e m i ripeteva le raccomandazioni di sempre» , dice il custode di casa. «La prego, non faccia salire nessuno che lei non conosca. La mamma non e più giovane, non si saprebbe difendere» . Una raccomandazione che affidava alle poche donne della sua vita: la cugina Graziella, l'attrice Laura Betti. È stata la Betti , ora chiusa in un teso mutismo, a preparare la povera madre al tragico annuncio, così come in questi giorni ha disposto ogni cosa per il funerale.
«Lo riportiamo a Casarsa, tra la gente che parla la lingua che gli ha ispirato la prima racolta di versi, accanto al fratello ucciso durante la guerra partigiana» . Conclude Nico Naldini. «Era il suo sogno rivedere quella terra e riposarvi per sempre.» Un sogno che la morte, per tanti versi ancor più triste di quanto Pasolini avesse mai immaginato, ha reso realtà. A chi gli voleva bene e rimasto il suo affetto e, nel rispetto per un maestro molto amato. Anche l'illusione che non tutto sia stato occasionale: «Non riesco a credere che sia finito così» , continua a ripetere Sergio Citti. «Se un giorno si venisse a sapere che ad ucciderlo non e stato soltanto quel povero ragazzo di borgata, ora i n prigione, non mi meraviglierei. Pier Paolo era diventato la cattiva coscienza di un mondo a cui è rimasta soltanto la rabbia della violenza per difendersi.»
Marzio Bellacci. "Pasolini nel racconto degli intimi con i quali sognava di invecchiare. Sangue nella borgata." "Epoca", 15 novembre 1975, pp.23-23.
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