top of page
  • Immagine del redattoreCittà Pasolini

Pier Paolo il profeta. Franco Nebbia intervista Pasolini a Cannes, 1974.


Pier Paolo Pasolini alla 27ª edizione del Festival di Cannes per il film Il Fiore delle Mille e una notte, 1974 © DUFOTO/Archivi Farabola/Tutti i diritti riservati


I profeti dell’antichità, Isaia, Giovanni, Paolo, me li sono sempre immaginati così: circondati da una corte di adepti disposti anche a versare il sangue, assediati da tonnellate di libri e di manoscritti, trascinati per ogni dove, per fargli dire la loro sui problemi del mondo.


E così Pasolini, profeta - e non la si creda un’iperbole - dei nostri travagliati giorni. Lo avevo intravisto ai vari festival del cinema quando era entrato coraggiosamente nella giungla della cinematografia internazionale con le prime opere, bellissime e tanto discusse, ormai pane da cineteche. L’ho incontrato a Cannes ed ho avuto il piacere di essere invitato a colazione con lui e con la sua corte.


Ho avuto la fortuna di rincontrarlo per intervistarlo. Non è un lavoro facile per un modesto pennaiolo della mia risma formulare domande non banali a un tale maestro, ed è ancor più difficile tradurre in soldoni le sue filosofiche risposte. Si rischia come minimo di travisare tutto, e non è certo un piccolo rischio. Anche perché ho imparato a stimarlo attraverso le sue opere e non desidero fargli torto. I suoi atteggiamenti politici e religiosi hanno spesso sorpreso gli ortodossi sia dell’una che dell’altra parte per l’assoluta libertà con la quale vengono espressi e motivati. Attualmente rappresenta un capo-scuola nel mondo del cinema ed è considerato maestro di vita e di filosofia, anticonformista pericolosamente teso verso un futuro - ai più - incomprensibile.


- Vorrei sapere qual è la sua visione del mondo contemporaneo, ma soprattutto come lei reagisce a questo mondo e al suo modo di vivere.

- È un tema talmente largo che ne sono spaventato. Cercherò di impiegare quel poco di energia che mi rimane per accontentarla. Il mondo contemporaneo mi appare come qualcosa di profondamente, totalmente nemico, davanti al quale la mia tendenza è il rifiuto. Questo mio atteggiamento no n è però totalmente negativo. È vero che ho dato modo di pensare al pubblico di voler fuggire da questo presente facendo dei film sul passato, ma si tratta di un impressione sicuramente superficiale. Il mio odio per il mondo contemporaneo nasce dal fatto che io non riesco ad accettare l’industrializzazione totale, né il nuovo rapporto fra produzione e consumo, né la cultura di massa. La fusione di questi tre aspetti del mondo in cui viviemo ha generato qualcosa che non posso soportare, e non per ragioni - diciamo -economiche, perché effettivamente il tenore di vita in generale è migliorato, e nemmeno per il fatto culturale perché la cultura raggiunge diversi stratti della popolazione, sia pure come cultura della classe dominante, e neanche per ragioni strettamente moralistiche, perché sono d’accordo che l’uomo deve cambiare, adeguarsi. Le ragioni che generano questo mio rifiuto sono altre, ad esempio che i valori umani ai quali sono attaccato irrazionalmente stanno scomparendo.



- In particolare, quali sono i valori che stanno scomparendo?

- La cultura italiana o quello che era sino a pochissimi anni fa. Cultura che era estremamente composita. Era formata da tante altre culture particolaristiche, ognuna delle quali era reale. Tanto per dirne una, quella che era la cultura della piccola borghesia e del popolo milanese. Oppure se pensiamo al popolo napoletano o al sottoproletariato della borgata romana, ai contadini del Sud, o a quelli friulani. Tutte queste culture, così reali e autentiche nella loro particolarità, erano quelle che rendevano gli italiani vivi, anche simpatici e, malgrado i loro difetti, degni d’amore. Adesso queste culture particolari sono stati spazzate via.


- Con le sue opere lei tenta di ricondurre - almeno i fruitori delle stesse - ai valori culturali di cui si diceva. Pensa di riuscirvi?

- No, perché l’opera di un singolo non significa niente. Ci vorrebbe un urto massiccio. Se si trattasse soltanto di un cambiamento di generazioni allora potrei anche sperare che la parola di un singolo riuscisse a influenzare il corso delle cose, essere presa in considerazione, ma qui si tratta di un cambiamento storico di quelli che avvengono nell’umanità ogni mille, diecimila anni. Ce n’è stato uno all’età della pietra, vale a dire con il passaggio dalla pura bestialità alla preistoria, poi uno con la scoperta della seminagione, per cui l’uomo da raccoglitore è diventato contadino, e uno adesso. Siamo così al terzo o forse al quarto grande passaggio di epoca, in cui l’uomo diventa consumatore. Adesso c’è la distruzione della natura e la sostituzione dei beni naturali con qualcos’altro che si riassume nella mercificazione di tutto, nel consumismo sfrenato.


- Queste sue opere cinematografiche, che vanno da Accattone al Il fiore delle Mille e una notte che cosa rappresenta per lei?

- Un modo di esprimermi e non un mezzo di comunicazione, questo è il punto. I linguisti fanno differenza tra la lingua comunicativa e quella espressiva. Ora io in questa mia conversazione con lei, diretta ai suoi lettori, uso una lingua comunicativa, che è essenzialmente di carattere pratico, mentre nella lingua espressiva porto un altro tipo di messaggio non essenzialmente utilitaristico, né pratico.


- Il fatto che lei abbia scelto per i suoi ultimi tre film, tre opere letterarie così diverse tra loro è un fatto voluto o casuale?

- Fra le tre opere esiste un’invariante costante e delle varianti profonde. L’invariante, cioè il particolare comune alle tre opere è il mondo popolare, voglio dire cha anche se tra il mondo popolare e la sua cultura del periodo Boccaccesco e il mondo e la cultura dei Racconti di Canterbury e delle Mille e una notte, esistono delle profonde differenze di tipo somatico e di linguaggio, resta la costante di cultura popolare che è quello che maggiormente mi interessa di evidenziare nei miei film.


- Parliamo un momento delle Mille e una notte. Le faccio una annotazione curiosa. Come mai in questo strano, onirico mondo orientale, compare un solo cristiano e per giunta pe trattato come un traditore ed è messo anche amorte? È una sua presa di posizione voluta o no?

- Mah, nei tanti racconti ce ne saranno anche degli altri cristiani. È un fatto che nei racconti che ho selezionato, ne capita soltanto uno ed è così com’è.


-Lei è considerato un maestro, però accade che dal suo Decameron nascono decine di orrendi decameroncini che sfruttano malamente la moda da lei imposta.

- È vero, questo mi disturba moltissimo, perché danneggia il mio film e il mio pubblico, quello al quale io voglio bene, quello fatto di gente modesta, operai, poliziotti, che sono senza subbio anch’essi disturbati dall’uscita di queste opere minori. È da notare però che mentre tutti citano i decameroncini, come lei dice, del Decameron di Pasolini, nessuno riconosce che ho aperto delle strade a film che senza le mie opere non avrebbero mai trovato posto nel mondo del cinema. Parlo delle opere di Bertolucci, di Marco Ferreri, e di tanti altri validi autori. Se mi danno tante colpe, si cerchi anche di trovarmi dei meriti, almeno per equilibrare la situazione. Non mi sento di assumermi le colpe della faciloneria e della malafede di tanti opportunisti.Per fortuna la parte migliore degli spettatori accorre ai miei film e fa giustizia sommaria delle opere sfacciatamente e malamente copiate. Succede sempre così.

E su questa nota di soddisfazione concludo la difficile conversazione con Pier Paolo Pasolini, conversazione che per quanto mi riguarda è poi durata altre due ore, lasciandomi affascinato per la scienza e la sicurezza con la quale il maestro imposta e propone problemi, per la certezza con la quale li risolve (o li rimuove), incantando dalla sua chiara e pur profonda parlata dal leggero accento veneto.





Franco Nebbia. Pier Paolo il profeta, Festival di Cannes (maggio 1974) pp.42-44.
1.788 visualizzazioni2 commenti

Post recenti

Mostra tutti
© Contenuto protetto da copyright
bottom of page