Franco Citti, Pier Paolo Pasolini, Ninetto Davoli ed Ettore Garofalo nella casa romana di Pasolini all'EUR, anni settanta © J.Bauer/Tutti i diritti riservati
Un suggestivo barcone sul Tevere fa da sfondo alla presentazione dell'autobiografia di Franco Citti, il non dimenticato interprete di Accattone. Vita di un ragazzo di vita (Sugarco), libro scritto a quattro mani con Claudio Valentini, racconta in prima persona ; vicende dell'attore scoperto da Pasolini, quasi la sua vita fosse un calco perfetto di quelli dei personaggi interpretati nei film, dal citato Accattone (1961) a Una vita violenta (1961) e Mamma Roma (1962).
«Questo libro - si affretta a spiegare Franco Citti - vuole essere soprattutto un omaggio a Pasolini, un ricordo dell'uomo di cultura, dell'uomo di lettere, dell'uomo di cinema, o, più semplicemente, dell'uomo che aveva modi sinceri, onesti, un mondo tutto suo da far accettare. Un linguaggio che da noi nessuno aveva mai sentito. L'incontro con noi, me, mio fratello, i nostri amici, per lui interessato al nostro modo di vivere, è stato un incontro fortunato. Per lui e per noi... Non sapevo che nell'uomo timido ed educato is avrebbe e ci avrebbe, a me e mio fratello, cambiato la vita».
Quello che viene fuori dal libro è un personaggio un po' bullo, un po' ingenuo, metà guascone e metà angelo, un eterno giovane, imprigionato negli anni Sessanta, che non si rassegna all'idea di dover crescere, neanche di fronte all'evidenza dei figli grandi, del fallimento matrimoniale, della professione che con l'età vede rarefarsi le opportunità di lavoro. Traspare cosi il senso vero, autentico, dei sentimenti: l'amicizia con Pasolini, i continui innamoramenti con donne diverse, il gusto di saper cogliere la poesia che è racchiusa in ogni gesto di vita. Merito sicuramente del coautore, Claudio Valentini, aver saputo trasferire sulla pagina, in un italiano «sporcato», le molte verità di Fanco Citti.
«Ho più di cinquant'anni e non mi sono mai piaciuto. Sono sempre corso dietro alla vita soltanto per cercare di fregarmi. Ma quella ci pensava da sola a farlo. Non mi voglio bene. Non mi amo. Come posso amarmi, se nessuno mi ha mai spiegato come si fa, se intorno a me ho visto solo e sempre l'odio, la cattiveria, il dolore?».
Cosi esordisce Vita di un ragazzo di vita con una partenza da centometrista sul «dolore del mondo» e sul personale dolore di Franco Citti, la borgata, la fame, la guerra, il riformatorio, il cinema, la gloria tra virgolette, un grande amico, la morte, la disperazione, la merda... In questa elencazione cupa, che sembra chiudere nel giro di poche parole tutta una vita, si affaccia lo sguardo di David, il figlio svedese, poi subito appare la figura in negativo della madre che lo denunciava per tenerlo in riformatorio. In alternanza, come per un gioco di chiaroscuri, si staglia il volto serio, scavato, di Pasolini che in bicicleta attraversa la borgata, poi il corpo senza vita all'Idroscalo di Ostia. Ed ecco i bagni al fiume, le prostitute, fino al primo film:
«Al primo ciak io mi cacavo sotto. Ma come al solito non volevo darlo a vedere e assumevo strani atteggiamenti per non farlo capire. Il grugno da coatto sbandierato al vento, le gambe che mi tremavano come quelle di un capreto. Pier Paolo andava avanti e indietro con la macchina da presa in mano. Mi girava intorno come una vespa saltellante e a me pareva una specie di Gesù Cristo».
Una scrittura molto vicina al parlato, un linguaggio a volte crudo, a volle dolce, cosi com'è la vita, ma una voce vera come una confessione; in questa storia di monologo autentico, viscerale, il libro si scioglie intorno al culto del poeta di Casarsa con una devozione, un affetto fraterno:
«Pasolini è nel mio cuore, nella mia mente, è attaccato al muro della mia stanza: gli dico un eterno riposo tutte le sere e dormo».
Nonostante Franco Citti abbia una memoria fitta anche di ricordi positivi (gli amori, la pesca a Fiumicino, ì viaggi all'estero, il clamore dei Festival cinematografici, la nostalgia del padre), il suo maggiore rimpianto rimane legato alla fine prematura dell'amico poeta. Inconsciamente riconosce in lui quella guida spirituale che è mancata alla sua vita, forse per la latitanza materna, per la brutalità delle cose, ma anche per una sorta di «animalità» viscerale che lo caratterizza come un marchio, un gene ereditario. La scomparsa di Pasolini è anche un motivo di riflessione sul significato della morte, la cui parola ricorre più volte nel libro, come se Citti ne subisse un torbido fascino. Le stesse passioni dell'amico poeta - il calcio, l'amore per Maria Callas, la madre, il sesso rubato - sembrano svanire dietro al senso di line, spostano gli eventi nel rigore di un'esattezza storica. Tutti coloro che hanno usato (e abusato) il nome di Pasolini sono degli ipocriti; la stessa Laura Betti, che pure presiede il «Fondo Pasolini» viene additata nel libro come una speculatrice utilitaristica. Solo lui e Ninetto Davoli possono considerarsi ì veri amici di Pasolini.
«Un ciclista la mattina alle sette, a Fiumicino, uno che girava in bicicletta urlando a squarciagola perché sapeva che lì lo conoscevano in tanti, mi portò la notizia della sua morte. "Hanno ammazzalo Pasolini" strillava».
Qui il racconto s'inceppa, come per un segnale convenuto, un punto di confine tra la parola e il silenzio, tra vitalità e dolore. Il volto di Franco Citti ora si chiude in una intricata ramificazione di rughe; a voce, sommessamente, quasi sussurrando, soffia le ultime profetiche parole prima di accomiatarsi' «Voglio morire come l'ultimo ragazzo di vita e raggiungere Pier Paolo in Paradiso».
Franco Citti. "Pier Paolo, Ninetto ed io: autobiografia di un «accattone»". Intervista a Franco Citti (1992) per il libro "Vita di un ragazzo di vita" su "L'Unità" giovedì 10 settembre 1992, p.17.
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